La figlia del giudice morto nell’esplosione di ventisette anni fa, torna a chiedere che si faccia luce sulla strage: «una richiesta che non riguarda solo la nostra famiglia ma tutto il popolo italiano». Raccogliamo il suo appello ricordando le parole del padre: «Parlate di mafia. Alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». Il «forte impegno civile da parte di tutti», per sconfiggere i boss
Era una domenica, il 19 luglio di ventisette anni fa. 57 giorni dopo quel 23 maggio in cui l’esplosione alle porte di Capaci aveva segnato una svolta nella storia della mafia siciliana, della Sicilia. Del Paese. Ne seguì un’altra di esplosione, alle 16,58 di quella domenica che sembrava come mille altre. E che invece doppiò il capo della guerra allo Stato, dichiarata dai boss. Ventisette anni dopo Falcone e Borsellino, all’indomani della decisione della commissione parlamentare Antimafia di desecretare gran parte degli atti sulle stragi, comprese le inutili denunce (dal pc non funzionante alla scorta solo la mattina) levate da Borsellino in quella sede istituzionale. A valle di anni e anni di processi che, tra depistaggi, omissioni e falsi pentiti, hanno portato a nulla o quasi. E alla vigilia dell’anniversario della morte del giudice che esortava a non mollare: «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene», raccogliamo gli appelli che la figlia di Paolo, Fiammetta, ha lanciato, ancora in questi giorni. Così ai microfoni di Tv2000 a proposito della verità giudiziaria che ancora non c’è. Che si faccia luce, ha detto, «è una richiesta che non riguarda solo la nostra famiglia ma credo che è un qualcosa di cui tutto il popolo italiano e tutta la società si debba far carico delegando questo compito non soltanto ai magistrati e alle forze dell’ordine. Credo che ad essere stata offesa non è soltanto la buona fede e l’intelligenza della nostra famiglia ma quella di tutto il popolo italiano». Sulle pagine di Famiglia Cristiana ha invece ammonito: «La sentenza Borsellino quater, nel 2017, pronunciata dalla Corte di Assise di Caltanissetta, ha definito quella di via D’Amelio (per me una strage di Stato) uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria del Paese». Ha quindi puntualizzato: «C’è stato un tradimento nei confronti di mio padre quand’era in vita che poi è continuato anche dopo la sua morte». «La lotta alla criminalità organizzata richiede un forte impegno civile da parte di tutti. Dopo la morte di Falcone e di mio padre è sbocciata quella rivoluzione culturale e morale che lui stesso auspicava. Solo quando le nuove generazioni negheranno il consenso alla mafia – è pertanto il desiderio di Fiammetta – ci saranno più possibilità per sconfiggerla». (ug)
Nella foto: Paolo Borselino, via D’Amelio subito dopo l’esplosione. E gli uomini della scorta che lì persero la vita: Agostino Catalano, Walter Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina Da Rainews, un brano dell’intervista a Borsellino un mese dopo l’uccisione di Falcone: «Dopo Capaci sappiamo di quali efferatezze sia capace la mafia» L’inutile allarme che nel 1984 Borsellino lanciò durante un’audizione in commissione parlamentare Antimafia (Ansa)